Qualche settimana fa vi abbiamo raccontato di Agni Parthene. Oggi tocca al suo alter ego, Sognando Agni Parthene.

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Agni Parthene fu inciso di mattina. Di pomeriggio non erano previste registrazioni. Ma a pranzo, Giovanni Arena, Dario T. Pino e Francesco Lipari si confrontarono su vari aspetti di natura compositiva. Fino alla proposta che qualcuno accennò: "Perché non rifacciamo lo stesso brano più free?" E nacque Sognando Agni Parthene, una rilettura del primo brano… con più eccessi.

Nessuno credeva  diventasse il secondo brano del singolo. Riascoltandolo, però, ne rimasero sorpresi e lavorarono per inserirlo nel lavoro. Uscì nel 2017 come singolo insieme a Agni Parthene, prima di far parte dell’album omonimo, disponibile anche in cd fisico acquistabile qui.

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Sognando Agni Parthene ha la stessa struttura narrativa della traccia gemella amplificandone e distorcendone gli elementi fino al parossismo: è evidente che si tratta di un sogno dove il ricordo di qualcosa vissuto è percepito in maniera distorta, non lineare, che prende vie traverse attraverso porte della coscienza che mai avremmo concepito da svegli.

Lo percepiamo sin da subito, ascoltando il "drone" iniziale che presenta una elaborazione elettronica che ne altera il decorso dinamico. Sembra di essere in un labirinto dove specchi deformanti alterano in maniera irrazionale la percezione dimensionale sino a far perdere la coscienza di sé.

Da subito si percepisce una dimensione "altra" anche nella parte strumentale e l'elemento che prevale è senz'altro il rumore che viene amplificato e deturpato dai suoni elettronici. Si nota una certa fatica nel processo che in Agni Parthene era ben delineato e coerente: qui tutto diviene a scatti, deviazioni che poi ritornano indietro, voler fuggire da una idea per poi ritornarci. Volendo trovare un paragone pittorico, sembra quasi di essere dentro un quadro allucinante di Füssli. Persino il primo accenno della melodia, intorno al minuto 8:30, è presentato con un timbro diverso dal flauto basso suonato come se fosse una tromba.

Ma ecco che intorno al decimo minuto che la melodia fa la sua comparsa portando un po' di serenità all'orizzonte. Ma è una sensazione effimera: presto l'onda di suoni e di rumori strumentali ed elettronici fagociterà tutto riportandoci all'atmosfera dell'inizio e lasciando il discorso in sospeso e in attesa che l'ultima traccia dell'album cancelli il sogno vissuto.

 

Qualche decennio fa alcuni ricercatori di tradizioni popolari visitarono Barcellona Pozzo di Gotto (ME). Cercarono alcuni anziani per raccogliere i canti popolari del luogo. Ne fu fatta un’incisione su vinile. Ne ignoravamo l'esistenza fino a quando, rovistando in cantina, tra varie cianfrusaglie, spuntò fuori il disco.

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Tra i vari canti, uno ci colpì: Misereri mei, un frammento di un canto popolare sul testo latino del Salmo 50 (Miserere mei). Fino a qualche anno fa veniva cantato il Giovedì Santo dal cantore in visita ai “sepolcri”.

L'aspetto formale non è legato al brano, se non come spunto emotivo per l'improvvisazione. Su quel materiale abbiamo creato due brani: Misereri e Mismedo.

Quindi un doppio parallelismo tra i quattro brani: due su Agni Parthene e due su Miserere, come già accennato nel post in cui abbiamo parlato della struttura dell’intero album

Accanto a Francesco e Dario, si unisce Carmen Mazzeo con il flauto, diventando componente fisso del gruppo.

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Mismedo è una parola ricavata dalle iniziali di MISerere MEi DOmine. Lo spunto nasce proprio dal ritrovamento del disco citato prima, che contiene una versione in siciliano di tale canto e che sarà protagonista nell’ultima traccia dell’album.

Se Agni Parthene si caratterizzava per i contrasti degli elementi, Mismedo si presenta come il suo opposto: l’impalpabilità del suono, le sfumature, gli eterei mutamenti di climi sonori sono i protagonisti di questo brano che ci trasporta in luoghi del sentire quasi mistici.

Il brano inizia con un’atmosfera sospesa creata dai suoni elettronici alla quale si aggiungono ben presto i suoni sfumati dei whistle tones dei flauti soprano e basso suonati dagli strumentisti. Per circa sei minuti si monta un inarrestabile crescendo fatto con accumulo di suoni prodotti dagli strumentisti e riverberati e ritardati dall’elettronica che sfocia in una sezione in cui il flauto di Carmen Mazzeo si esibisce in virtuosistici arabeschi melodici.

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Intanto Francesco, che è passato alle percussioni, dialoga con il flauto sottolineando il momento con giochi di colore creati dalle percussioni, piatti e tamburi in prevalenza, ma suonati con tecniche estese.

Intorno al settimo minuto una elaborazione elettronica di un flauto diritto crea la sensazione di uno strumento nuovo: è questo quello che si chiama “strumento aumentato”: una elaborazione elettronica di strumenti tradizionali che ne amplificano le potenzialità tecniche ed espressive. Tutto questo è accompagnato dai pizzicati del flauto basso.

Al nono minuto un accenno ad una melodia pesante e misteriosa che tenta di emergere e farsi strada tra i suoni. Ma ben presto viene fagocitata in una atmosfera irreale che viene ricreata dalla trasformazione dei suoni di whistle tones che avevamo sentito prima: ancora non è tempo che la melodia si faccia presente ed esca allo scoperto in maniera reale, sarà l’ultimo brano che ci porterà verso questa meta in un percorso pensato per poter farvi viaggiare alla scoperta delle sonorità e del pensiero di Fracargio.

Logo Definitivo Nero cropÈ un pigro pomeriggio di agosto. Dario e Francesco si incontrano per iniziare a registrare il nuovo singolo di Fracargio.

Il materiale prodotto non è male, buona la prima. Ma qualcosa li rende insoddisfatti. Il suono dei vari friscaletti, sovraincisi e uniti all'elettronica, manca di sale.

La libreria di Dario ha una bella sezione dedicata al siciliano in cui spicca un'antologia poetica in più volumi. Francesco la conosce bene perché ce l'ha anche lui. Apre il volume dedicato al Cinquecento e la prima poesia che balza agli occhi è di uno sconosciuto poeta, Tubiolo Benfare.

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"Facciamone un'altra" dice Francesco.

"Stavolta usa il flauto di canna traverso che ti sei costruito tu" suggerisce Dario.

"Ma è grezzo! Difficile da gestire!"

"Meglio così, è più autentico".

Ne viene fuori il brano Fa focu amuri basato su quella poesia. Al suono degli strumenti e dell’elettronica si aggiunge la poesia, letta, cantata, urlata, sussurrata, elaborata con l'elettronica, sezionata fino a diventare puro suono.

Riascoltando si accorgono che il brano registrato per primo utilizzava gli stessi frammenti melodici di questo. Adesso i due brani hanno quel condimento che mancava e che soddisfa gli autori. Decidono di aggiungere una poesia di Antonio Veneziano che sembra calzare a pennello. Un verso della poesia dà il titolo al brano, Morti duci.

La letteratura siciliana sarà il tema di questo singolo e dell’album che ne seguirà. E tanti saranno i musicisti coinvolti. Finora hanno partecipato, accanto a Dario T. Pino (elettronica, synth, programmazione) e Francesco Lipari (flauti in canna, voce, percussioni): Carmen Mazzeo (flauti barocchi), Carmelo Giambò (fisarmonica), Giovanni Alibrandi (violino), Alessandro Monteleone (chitarra). Le sessioni di registrazione riprenderanno in primavera con altri artisti.

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Un giorno Dario T. Pino e Francesco Lipari invitano a pranzo Giovanni Arena, contrabbassista di Catania con il quale condividono la formazione compositiva con Alessandro Solbiati. Giovanni era entusiasta dell'idea di improvvisare con loro.

Da quell'incontro nacque il singolo Agni Parthene, basato su un canto devozionale ortodosso non liturgico dedicato alla Vergine Maria.

Perché un canto ortodosso? Le radici profonde della Sicilia sono greche e fino alla romanizzazione del rito anche la liturgia e la fede erano greco-bizantine. Ha un significato simbolico, non scientifico. Ne abbiamo parlato più diffusamente nel precedente articolo.

Francesco, polistrumentista, sceglie il flauto basso: frammenti melodici del brano si ricompongono per sfociare nella citazione letterale della melodia, più volte, nel finale. È come puzzle che nasce dai singoli pezzi che, ammucchiati su un tavolo, non danno l'idea del quadro finale, se non per qualche dettaglio.

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Il brano si nutre di contrasti: tradizione e modernità, trascendenza e immanenza, polifonia e monodia, voce e strumento. Contrasti che percorrono tutto il brano, a tratti esaltati e altre volte annullati (come a dare quel senso di serenità interiore tanto agognata).

Un bordone fa da sfondo a tutto il pezzo. È una nota cantata su un LA molto grave che a volte scompare, altre emerge, altre ancora sovrasta tutto il resto. Dal bordone affiorano i due strumenti, contrabasso e flauto basso, eseguendo solo rumori con ogni possibile mezzo: con l’archetto battuto, sfregato, con il soffio nello strumento, insomma l’intero corpo dello strumento diventa cassa di risonanza.

La scelta del rumore è voluta e forte. Se ci riflettiamo il rumore è nato ben prima del suono. Sono rumori quelli che sentiamo per la maggior parte intorno a noi; sono rumori ciò che producono i primi strumenti mai costruiti - le percussioni.

Il contrabbasso inizia il brano. Intorno al primo minuto si aggiunge il soffio del flauto che diventa amplificazione del fiato dell’esecutore, ovvero del respiro, ovvero della vita.

Da qui e per quattro minuti, gli esecutori danno sfoggio di bravura tecnica ed espressiva costruendo una sorta di contrappunto tra gli strumenti. Un crescendo emozionale condito dai riverberi e dalle risonanze dell’elettronica.

Subito dopo il bordone tace per un minuto e mezzo circa; gli strumenti emergono continuando il percorso di avvicinamento al suono, alla melodia, che finalmente si palesa nella sua severa e ieratica maestosità al minuto 6:22.

È l’apoteosi della conquista melodica. Tutte le componenti sonore del brano si uniscono in una sorta di orgia sonora che si spegne nello stesso silenzio iniziale.